Nella puntata di “Quarto Grado” – in onda questa sera, venerdì 19 aprile, in prima serata su Retequattro – verrà proposta un’intervista esclusiva a Luciano Gallorini, l’ex comandante dei carabinieri di Erba, che per la prima volta parla in TV della strage avvenuta l’11 dicembre 2006.
Nella casa dove vivevano i Castagna trovarono la morte Raffaella e il figlioletto Youssef, la signora Paola, nonna del piccolo, e la vicina di casa Valeria Cherubini. Per il massacro sono stati condannati all’ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. I due, dopo aver confessato i delitti in più occasioni, ribadiscono la propria innocenza e puntano alla revisione del processo.
Di seguito l’intervista esclusiva a Luciano Gallorini:
«Io non conosco l’inferno, ma di sicuro, quella sera, abbiamo vissuto l’anticamera dell’inferno. Acqua, fuoco, fuliggine, odore di carne umana e di sangue bruciato: solo chi l’ha avuto nel naso può ricordarselo».
Cosa ricorda di quella sera?
«Io vengo chiamato alle ore 20:00, circa. Mi precipitai sul posto e trovai una situazione veramente apocalittica. Salgo all’interno della palazzina, dove trovo il primo cadavere di una donna. Poi entro all’interno dell’appartamento, dove troviamo un altro cadavere, sempre di un’altra donna, e in un locale-salotto in fondo all’appartamento c’era il bambino sgozzato… un bambino piccolo. Poi si scoprì, immediatamente dopo, che c’era un ulteriore cadavere, quello di Valeria Cherubini».
Cosa avete fatto dopo essere andati nella palazzina?
«Il primo interrogativo, che ci siamo posti, è stato su Azouz Marzouk. Succede questa cosa… manca il marito e quindi siamo andati a casa dei parenti di Azouz e abbiamo fatto, nella flagranza del delitto prevista dalla legge, una perquisizione: prendiamo i fratelli e i parenti di Azouz e li portiamo in caserma. Quale potrebbe essere un’altra ipotesi? Controllando il carteggio della stazione accertiamo che i vicini di casa della signora Castagna erano stati al comando di Erba, per delle liti dalle quali erano scaturite lesioni e minacce tra la famiglia dei Castagna e Olindo Romano e Rosa Bazzi. Tra l’altro, il giorno 8 dicembre 2006 avevamo notificato un provvedimento di citazione, per un dibattimento che ci sarebbe stato il 13 dicembre 2006. E il signor Olindo Romano e la signora Rosa Bazzi erano imputati, non parti lese, ma imputati. O uno fa finta di nulla o uno fa quello che deve fare… Così dissi al maresciallo Nesti di andare a controllare… di fare un salto a casa, per vedere. Poco dopo il maresciallo mi chiamò e mi disse che c’era una situazione un pochino strana: mi disse che i coniugi avevano aperto dicendogli che stavano dormendo, anche se non era vero. Poi, senza che lui chiedesse niente, gli avevano mostrato uno scontrino di un esercizio pubblico… e poi mi riferì che la signora aveva un dito incerottato. A quel punto, con un collega, decisi di andare nella casa dei due coniugi. Quando sono entrato, il signor Romano aveva sul braccio e su un dito delle ecchimosi. E la lavatrice stava andando, erano le 15.40».
Quando avviene la perquisizione dell’automobile dei due coniugi?
«Alle 14.25, del giorno 12 dicembre».
La perquisizione la compie e la firma Moschella?
«Credo che quello sia stato l’unico errore… Era l’unico del quale potevo approfittare, perché non aveva partecipato alle attività della notte. Il carabiniere Rochira non mette Moschella nel verbale e, ovviamente, lo diciamo ai magistrati. Il giorno dopo abbiamo fatto un sopralluogo dei tetti e non c’era assolutamente segno di nulla».
Cosa succede l’8 gennaio 2007?
«Vado nell’ufficio del dottor Nalesso (sostituto procuratore a Como, ndr), che mi dice che bisognava fermare Olindo Romano e Rosa Bazzi. Io, poi, leggerò dal verbale di fermo che era stata trovata una macchia di sangue. Ci troviamo tutti quanti a Erba e diciamo ai due coniugi: “Visto che qui non vi lasciano in pace, andiamo in caserma e lì capiamo come comportarci”. Li abbiamo ingannati un po’, ma abbiamo avuto fortuna, perché leggendo la confessione di Olindo, lui dice: “Se avessi saputo che ci stavano fermando, li avrei ammazzati”. Ed era probabile, perché Olindo era un toro… era molto forte».
Come ha vissuto le critiche di questi anni?
«Purtroppo, inspiegabilmente, negli ultimi anni, sulla mia persona e, man mano, in maniera sempre più grave, sono state dette delle falsità. Perché attaccare una persona? Per molto meno, della gente si è ammazzata».
Cosa la commuove?
«Se tu alla gente dici che una persona è scorretta, poi la gente se lo porta dentro. Mi auguro che a nessun altro possa capitare un affare del genere…».
Il 20 dicembre 2006 lei va a interrogare Mario Frigerio. Per anni è stato detto che nessuno l’aveva autorizzata ad andare in ospedale da Frigerio. È così?
«Nel corso del sopralluogo fatto nella palazzina dove era stata commessa la strage, avevamo sequestrato del materiale. Dovevamo dare identità e spiegazione a questo materiale… e poi abbiamo chiesto di poter parlare con l’unico sopravvissuto, per ricostruire e per capire qualcosa di più. Questa possibilità è stata prospettata ai magistrati… ricordo che il dottor Nalesso mi disse: “Gallorini vada e faccia un colloquio investigativo con Frigerio”».
Sapeva di essere intercettato?
«Sì, sapevamo che il signor Frigerio era sotto intercettazione. Ho detto “Ok, va bene, vado io”, ma che dovevo informare sia il mio comandante di compagnia, che il responsabile del nucleo operativo. E, sia il capitano Beveroni che il tenente Gaggini dissero che sarebbero venuti in ospedale con me per il colloquio. E Beveroni mi disse di condurre io il colloquio, perché ero il comandante di stazione e perché conoscevo la situazione fin dall’inizio. E così entrammo nella stanza del Frigerio, dove tutto era registrato. Nella stanza eravamo noi tre, Frigerio e i suoi figli».
Cosa ha detto Mario Frigerio?
«Siccome aveva la gola tagliata e la voce flebile, mi posi il problema di far sentire quello che il Frigerio diceva. Per cui, a un certo punto, dissi: “Oltre alle domande ripeterò le parole e le riposte del Frigerio, per renderle più comprensibili”».
A un certo punto lei chiede al Frigerio se conoscesse il suo vicino di casa Olindo Romano?
«Sì, perché uno degli interessi era sapere se conoscesse il suo vicino. E lui mi disse che lo conosceva e mi disse che se lo avesse visto sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Il colloquio stava per terminare e, a quel punto, Frigerio mi chiese del perché gli avessi chiesto di Olindo Romano. Gli risposi che volevo sapere se lo conosceva, poi gli chiesi del perché di quella domanda. A quel punto lui, piangendo, disse che il suo assassino poteva essere Olindo Romano. La cosa scosse un po’ tutti, così gli chiesi se potesse essere Olindo Romano o se non potesse essere Olindo Romano. E il Frigerio disse che poteva essere l’Olindo, che era l’Olindo… A quel punto abbiamo interrotto il colloquio investigativo, perché non era corretto andare avanti, in quanto la cosa era troppo delicata».
Ancora oggi le viene contestato il fatto che Frigerio non ha mai fatto il nome di Olindo Romano? Lei non l’ha indotto a dire il nome di Olindo?
«Ma no, certo che no! Che senso avrebbe avuto? Ci ha sorpreso, soprattutto, il pianto».
La difesa contesta ancora il fatto che gli altri due ufficiali non abbiano voluto firmare quel verbale…
«L’annotazione solitamente la fa un ufficiale di polizia giudiziaria. Perché è stata fatta l’annotazione? Perché c’era già l’intercettazione e, quindi, il verbale vero e proprio era quello dell’intercettazione».